Alzheimer e integratori alimentari – Il rischio di ignorare l’evidenza scientifica

 

La FDA parte all’attacco contro i falsi claim di molti integratori alimentari che pretendono di “curare” la demenza.

 

 

 

Recentemente, negli USA, la FDA ha emesso provvedimenti nei confronti di 17 aziende che vendevano integratori alimentari pubblicizzati come cura del morbo di Alzheimer. Questa azione rappresenta un primo passo da parte dell’agenzia americana per inasprire le politiche sull’immissione in commercio degli integratori. La comunità medica che si occupa di Alzheimer ha visto di buon grado questo intervento, che dovrebbe meritare il plauso e supporto da parte di tutti i professionisti nel campo delle malattie cerebrali.

Nel nostro paese, per fortuna, un intervento di questo genere non è necessario: i produttori di integratori alimentari, infatti, sono tuttalpiù liberi di affermare che il loro prodotto apporta benefici sulla salute (es. “migliorare la memoria”), ma mai di rivendicare efficacia nella prevenzione o trattamento di una malattia.

Ciò non toglie che queste sostanze possono anche causare danni, ad esempio interagendo con farmaci da prescrizione, oltre che portare taluni pazienti ad evitare o ritardare il contatto col medico al momento del bisogno. In tal senso i medici hanno il dovere di informare i pazienti riguardo a ogni tipo di terapia in modo che questi possano operare una scelta informata; questo include certamente anche fare chiarezza sulla sostanziale carenza di basi scientifiche intorno a tutta una serie di medicine alternative.

A sua volta l’industria degli integratori alimentari, che ha un giro d’affari gigantesco, sarebbe perfettamente in grado di investire nei eventuali trial clinici randomizzati necessari per comprovare gli effetti clinici dei loro prodotti; il problema è che spesso queste sostanze non possono essere coperte da brevetto, pertanto mancano gli incentivi economici per tenere alti gli standard scientifici, e, sfortunatamente, a quanto pare l’integrità scientifica non rappresenta un valore cardine di questo settore.

Sempre negli Stati Uniti, un questionario nazionale del 2018 sulla conoscenza del cancro ha messo in evidenza che quasi il 40% degli intervistati crede che il cancro possa essere curato con terapie alternative. Questo la dice molto lunga sul livello di disinformazione presente attualmente nella popolazione generale: evidentemente la cultura dominante rappresenta un ottimo substrato per l’attecchimento della pseudo-medicina.

Gli scenari futuri riguardo al morbo di Alzheimer ci devono mettere seriamente in guardia: il numero di malati è raddoppiato tra il 1990 e il 2016, e ci si aspetta che raddoppi ulteriormente nell’arco di pochi decenni. Considerando che attualmente nella popolazione over 65 degli Stati Uniti una persona su 10 è affetta, è facile rendersi conto dell’entità del problema.

Tutto questo implica anche che le industrie farmaceutiche faranno i salti mortali per spartirsi questa fetta di clienti, il che impone sin da subito una stretta vigilanza sulle pratiche commerciali così come il miglioramento e l’implementazione dei protocolli di sicurezza a disposizione, cosa che, in effetti, le autorità regolatorie hanno già cominciato a fare, come nel caso del sito internet per segnalare le reazioni avverse legate a prodotti erboristici (www.vigierbe.it).

In conclusione, per ora non abbiamo alcuna cura per la demenza, però possiamo utilizzare tutta una serie di medicine che migliorano i sintomi e la gestione di questi pazienti, oltre che le cure palliative eventuali. È importante che i medici mantengano alto il livello di diffusione della cultura scientifica, screditando quando doveroso le illusioni fornite dalla pseudo-medicina, oltre che denunciarne i rischi.

L’evidenza scientifica attuale mostra che le modifiche dello stile di vita quali esercizio fisico, dieta sana e interazione sociale migliorano la salute del cervello e possono prevenire l’insorgenza del declino cognitivo. Diffondiamo il verbo.

 

Editoriale – “The risk of ignoring scientific evidence”, The Lancet Neurology, maggio 2019
https://www.thelancet.com/journals/laneur/article/PIIS1474-4422(19)30089-4/fulltext

 

 

LinkedIn
Share
Instagram
WhatsApp