Un’idea per valutare e migliorare la sicurezza dei farmaci ab initio: utilizzare biomarker di farmacocinetica e farmacodinamica nel design delle sperimentazioni cliniche di fase I e II, per identificare precocemente gli eventi avversi da farmaco.
Il paradigma attuale dello sviluppo di nuovi farmaci permette di identificare solo gli eventi avversi (Adverse Drug Reactions, ADR) più comuni negli studi clinici che precedono l’immissione in commercio.
Il motivo risiede principalmente nel fatto che queste sostanze vengono somministrate a coorti di persone talvolta di poco superiori a 500 unità e raramente superiori alle 5000. Inoltre, le caratteristiche cliniche della malattia sottostante e delle eventuali comorbidità dei pazienti arruolati nelle sperimentazioni rappresentano una gamma molto ristretta e selezionata rispetto al contesto della popolazione generale.
Una volta che il farmaco viene approvato ed entra in commercio. ovviamente emerge tutta una serie di segnali ADR, inclusi quelli poco comuni o rari, grazie al fatto che la sostanza viene somministrata a migliaia e talvolta milioni di persone.
Esiste la maniera di migliorare questo paradigma, nel campo della farmacovigilanza, per scoprire le ADR meno comuni prima della commercializzazione di un farmaco?
Certamente, aumentare il numero di pazienti arruolati nelle sperimentazioni cliniche sarebbe molto utile. Purtroppo, questo approccio ridurrebbe notevolmente la fattibilità e aumenterebbe a dismisura le tempistiche.
Attualmente, di fatto, i partecipanti vengono scelti sulla base dei dati demografici, dei sintomi, delle comorbidità e dei precedenti regimi terapeutici, tra le altre cose. Anche se questi elementi possono effettivamente essere correlati alla farmacocinetica e farmacodinamica (che descrivono l’interazione tra farmaco e corpo umano), inter-individuale e di popolazione, essi non sono in grado di spiegare nello specifico il motivo “meccanicistico” per cui l’esposizione al farmaco e la sua attività variano tanto considerevolmente. In pratica ciò significa che i malati che si trovano “statisticamente” agli estremi, per via di varianti geniche o condizioni pato-fisiologiche relativamente rare, vengono in contatto con il nuovo farmaco solo in fasi tardive della ricerca clinica, se non dopo la commercializzazione del farmaco, il che implica una identificazione altrettanto tardiva di tutta una serie di ADR che per la loro bassa frequenza non sono emerse in precedenza.
Un esempio può aiutare ad inquadrare la questione: si prenda un farmaco che il quale esiste una variante genica, presente nello 0.1% della popolazione, che determina un ridotto metabolismo, quindi una più lenta eliminazione del farmaco e da ultimo una maggior tossicità. Di fatto le sperimentazioni cliniche risultano sistematicamente “sotto-tarate” in quanto a numerosità del campione per rilevare le ADR derivanti dalla lenta metabolizzazione. Essa emergerà solamente in seguito all’utilizzo clinico, quando la popolazione di pazienti esposti al farmaco sarà sufficientemente elevata.
Un articolo pubblicato su “OMICS, A Journal of Integrative Biology” propone un nuovo approccio per l’arruolamento dei soggetti che prendono parte agli studi clinici di fase I e II, in un’ottica di “farmacovigilanza di nuova generazione“. C’è che sostiene che viviamo nell’epoca d’oro dei biomarker. Eppure la loro introduzione nell’ambito delle sperimentazioni cliniche per lo sviluppo dei farmaci è piuttosto recente. Gli impieghi sono molteplici in questo ambito; ad esempio potrebbero aiutare a stabilire quelli che sono i limiti di variabilità, all’interno di una popolazione di riferimento, delle caratteristiche farmacocinetiche e farmacodinamiche di una nuova molecola candidata a diventare prodotto medicinale.
Il punto è che se venissero arruolati soggetti con specifiche caratteristiche genetiche o positivi per biomarker ben selezionati, si potrebbe migliorare la capacità predittiva del campione statistico, andando ad includere nelle analisi di sicurezza ed efficacia anche quelle fasce di popolazione come dicevamo prima “agli estremi” della curva statistica.
Una volta conosciuti gli effetti della sostanza nei soggetti più estremi. si potrebbero inoltre predire con più facilità e precisione gli effetti sulla popolazione con caratteristiche meno estreme.
Si potrebbe fare un parallelismo: così come automobili e aeroplani vengono testati in condizioni “di stress” ben al di fuori del normale utilizzo previsto, anche il farmaco dovrebbe, prima di essere commercializzato, venir caratterizzato in condizioni altrettanto estreme.
Gli autori hanno battezzato questo approccio con l’acronimo EDB clinical trial design, che sta per extremely discordant biomarkers. Ipotizzano che grazie ad esso si potrebbero risolvere alcuni “colli di bottiglia” nell’ambito dello sviluppo di nuovi farmaci, potendo fornire preziose informazioni per gli studi clinici di fase III di tipo dose-finding, oltre che migliorando il rilevamento di potenziali segnali di farmacovigilanza.
Ozdemir V, Endrenyi L “Toward Panvigilance for Medicinal Product Regulation: Clinical Trial Design Using Extremely Discordant Biomarkers”
OMICS, 2019. DOI: 10.1089/omi.2019.0013