Tamsulosina e rischio di demenza

La tamsulosina, un antagonista dei recettori α1-adrenergici utilizzato principalmente nel trattamento dell’Ipertrofia Prostatica Benigna, potrebbe influenzare negativamente le capacità cognitive. Uno studio di coorte ha studiato la possibile associazione di una terapia a medio-lungo termine con tamsulosina e il rischio di sviluppare demenza.   Un’alta percentuale di uomini (fino all’80% nell’ottava decade d’età) presenta disturbi…

La tamsulosina, un antagonista dei recettori α1-adrenergici utilizzato principalmente nel trattamento dell’Ipertrofia Prostatica Benigna, potrebbe influenzare negativamente le capacità cognitive. Uno studio di coorte ha studiato la possibile associazione di una terapia a medio-lungo termine con tamsulosina e il rischio di sviluppare demenza.

 

Un’alta percentuale di uomini (fino all’80% nell’ottava decade d’età) presenta disturbi urinari causati dalla cosiddetta Ipertrofia Prostatica Benigna (IPB), una condizione clinica legata ad un ingrossamento della prostata, per opera degli ormoni androgeni, che tende a determinare un restringimento dell’uretra.

Il trattamento farmacologico rappresenta l’opzione terapeutica di elezione nella maggior parte delle forme lievi e moderate, mentre la chirurgia diviene necessaria in forme più avanzate.
La tamsulosina, un antagonista selettivo dei recettori α1‐adrenergici, è uno dei farmaci più utilizzati, essendo in grado di determinare un rilassamento della muscolatura liscia interna della prostata, riducendo così la pressione esercitata dalla ghiandola sull’uretra.
Si tratta di un farmaco considerato sicuro e ben tollerato: gli eventi avversi più comuni sono capogiri, disturbi dell’eiaculazione, astenia.

Esistono però evidenze preliminari che la tamsulosina possa influire negativamente sulle funzioni cognitive, presumibilmente per la sua attività nei confronti di un sottotipo del recettore α1‐adrenergico (α1A), presente in molti tessuti cerebrali; si è visto peraltro che essa è in grado di oltrepassare la barriera emato-encefalica, la porta di accesso al Sistema Nervoso Centrale.

È stato osservato nel topo di laboratorio che la ridotta espressione α1A è associata a più basse performance cognitive, mentre una stimolazione a lungo termine aumenta la plasticità neuronale, migliora l’apprendimento e la memoria, e induce comportamenti legati ad un effetto antidepressivo, tutti elementi che possono essere ribaltati dalla somministrazione di un inibitore di questo recettore. Nell’uomo, uno studio ha riscontrato una ridotta espressione dei recettori α1‐adrenergici nella corteccia prefrontale in pazienti affetti da demenza.

Il fatto che la tamsulosina venga utilizzata prevalentemente nella popolazione anziana, di per sé a rischio di decadimento cognitivo, determina un importante bias nella ricerca di una possibile relazione di causalità, che si aggiunge alla difficoltà oggettiva di riuscire ad osservare tali effetti nella pratica clinica quotidiana.

Un gruppo di ricercatori del University of Connecticut Health Center, negli USA, per valutare la possibile associazione tra tamsulosina e il rischio di sviluppare demenza, ha effettuato uno studio retrospettivo prendendo in considerazione le cartelle cliniche di pazienti statunitensi con diagnosi di IPB e in terapia con questo farmaco tra il primo gennaio 2006 e il 31 dicembre 2012. Questi pazienti sono stati messi a confronto con 3 coorti:

  1. Pazienti con diagnosi di IPB che non assumevano alcun farmaco da prescrizione,
  2. Pazienti in terapia con altri antagonisti α1‐adrenergici (doxazosina, terazosina, alfuzosina) che non possiedono affinità per il sottotipo di recettore α1A,
  3. Pazienti in terapia con inibitori della 5α-reduttasi (finasteride, dutasteride), un’alternativa terapeutica in alcuni casi di IPB.

Risultati
Lo studio ha incluso 253126 pazienti nel gruppo tamsulosina, 180926 nel gruppo drug-naive, 28581 per doxazosina, 23858 terazosina, 17834 alfuzosina, 34027 dutasteride e 38767 finasteride.
Il tempo medio di follow-up è stato di 19.8 mesi.

I pazienti trattati con tamsulosina hanno mostrato un maggior rischio di sviluppare tutta una serie di patologie: malattie cerebrovascolari, malattie vascolari periferiche, insufficienza cardiaca congestizia, infarto del miocardio, delirio, danno cerebrale di natura traumatica, morbo di Parkinson e depressione. Inoltre, questo gruppo ha effettuato maggiori accessi ai servizi di salute: il 33.6% ha subito un ricovero, rispetto al 25.0% o meno dei gruppi di controllo.

L’incidenza assoluta di demenza è risultata significativamente maggiore del gruppo trattato con tamsulosina: 38.8/1000 anni-persona, rispetto ai 24.1-32.8 ogni 1000 anni-persona delle altre coorti, mentre l’Hazard Ratio, che assegna un valore al rischio di sviluppare demenza attraverso un confronto tra due coorti, è risultato di 1.17 per la coppia tamsulosina/drug-naive e nel range di 1.11-1.26 per le altre coorti.

Una ulteriore analisi ha stratificato il rischio sulla base della dose di farmaco assunto, prendendo come punto di riferimento il sistema Defined Daily Dose (DDD) messo a punto dall’OMS.
In confronto alla doxazosina (presa dagli autori come riferimento, che dichiarano risultati analoghi anche prendendo le altre molecole come paragone), livelli più alti di esposizione a tamsulosina sono risultati chiaramente associati in maniera incrementale ad Hazard Ratio più alti: 1.11 per dosi basse, 1.27 per dosi intermedie, 1.49 per dose elevate.

In conclusione, pazienti anziani con diagnosi di IPB potrebbero andare incontro ad un aumentato rischio di sviluppare demenza quando trattati con tamsulosina. Saranno però necessarie ulteriori verifiche per poter raggiungere una ragionevole certezza tale da modificare gli attuali protocolli terapeutici.

 

Duan Y, Grady JJ, Albertsen PC, Helen Wu Z. Tamsulosin and the risk of dementia in older men with benign prostatic hyperplasia
Pharmacoepidemiol Drug Saf. 2018;27(3):340-348. doi:10.1002/pds.4361

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